Site Overlay

Le origini

Cenni Storici

Il Monastero delle Romite dell’Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus (popolarmente più note come Romite Ambrosiane) risale al XV secolo ed è situato sul monte sopra Varese.

La sacralità di questo luogo affonda le sue radici in un’antica leggenda, secondo la quale nel 389 sant’Ambrogio (più verosimilmente il suo magistero, saldamente consolidato e diffuso nei secoli in queste terre) vi avrebbe debellato gli epiloghi dell’eresia ariana.

Le fonti attualmente reperibili documentano per la prima volta al 922 la presenza di una basilica intitolata a Santa Maria, Madre di Dio, meta già da allora di numerosi pellegrinaggi.

Verso la metà del 1400, la montagna, oggi ricca di arte, bellezza e spiritualità, era aspra e inospitale; presso il santuario tuttavia alcune eremite conducevano una vita interamente dedicata al Signore.

Caterina da Pallanza si unì a loro; sopravvenne un’epidemia di peste e tutte le sue compagne morirono: lei tornò a casa, guarì e il 24 Aprile 1452 salì definitivamente all’eremo di Santa Maria.   Non rimase però a lungo sola. Il 14 ottobre 1454 le si unì Giuliana Puricelli, da Busto – Verghera. Dopo Giuliana salirono al Monte Paola, Benedetta e Francesca. Il 10 Novembre 1474 papa Sisto IV approvò la fondazione di un monastero, in cui le prime cinque Romite a partire dal 10 Agosto 1476 iniziarono una forma di vita anche comunitaria, secondo la Regola di sant’Agostino e le Costituzioni dell’antico Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus.
Caterina, eletta dalla piccola comunità prima Abba­dessa, chiese ed ottenne dall’autorità eccle­siastica di allora, di seguire il rito della Chiesa di Milano .       

Il cenobio crebbe e si sviluppò nei secoli, non estraneo al flusso della storia e al cammino della Chiesa. Soppresso il 21 novembre 1798 dalla ventata rivoluzionaria che nella fase storica di dominio giacobi­no/napoleonico investì anche l’Italia, le monache di Santa Maria dovettero vivere ufficialmente come custodi laiche del luogo, sebbene mai interrompendo le essenziali forme della vita monastica e anzi accogliendo fra loro altre religiose provenienti da diversi monasteri della diocesi, ormai smantellati o distrutti.

Solo il 5 febbraio 1822, sotto la restaurata dominazione austriaca, poterono riprendere ufficialmente la loro vita di monache, con l’impegno però di aprire una scuola per l’educazione delle fanciulle. Vincolo che velò tuttavia almeno in parte l’iniziale loro vocazione eremitica.   La richiesta fatta agli Ordini religiosi dal Concilio Vaticano II di recuperare la loro originaria identità portò nel 1969 alla significativa scelta di chiudere il collegio e al conseguente ritorno alle nostre radici contemplative.

Le beate Caterina e Giuliana

Le due donne erano molto diverse: Caterina era di carattere forte e deciso, e insieme colma di carità, di prudenza e di pace; con grande forza d’animo, sopportava ogni tribolazione per amore di Dio. Riverente verso i misteri celebrati della nostra salvezza, era capace di far chiamare e correggere i preti che commettevano errori o imperfezioni liturgiche. Era paziente, ma attenta e intuitiva delle caratteristiche della natura umana e delle sue scaltrezze e falsità. Conosceva le Sacre Scritture, e la sua preghiera, sebbene meditativa e devozionale secondo lo spirito dell’epoca, si nutriva alla Parola di Dio. Leggeva e meditava continuamente la passione di Gesù sul Vangelo di san Giovanni, immedesimandosi profondamente nei suoi diversi momenti e commovendosi al pensiero di tutto ciò che il Signore aveva subito e sofferto per la salvezza dell’uomo. Soprattutto dominò sempre in lei l’immagine del Crocifisso, che diceva di avere «fisso e figurato nel cuore».

Giuliana, che presso la sua povera famiglia aveva sofferto molto, era mite e semplice, dolcemente sottomessa a Caterina, che fin dal principio riconobbe come madre, con un’umile ubbidienza in ogni cosa. Era incolta; l’antica biografia la dice incapace «di apprendere le Sacre Scritture», e viveva una vita spirituale semplice e limpida, che esprimeva ripetendo instancabilmente il Padre nostro e l’Ave Maria. Caterina, come una buona madre, con vera saggezza, le lasciò vivere questa sua religiosità pura e piena di amore per il Signore. L’umiltà, la povertà, l’ubbidienza erano i suoi veri carismi; di se stessa diceva: «Nulla ho in questa vita, nulla desidero di avere. E anche io non son mia, poiché io mi son data a Cristo e alla volontà degli altri».

 

Ciò che era comune a Caterina e a Giuliana e le univa era la meditazione della passione di Gesù e l’amore per il Crocifisso. Proprio questo è, nella nostra spiritualità, l’elemento più importante che attingiamo da loro.