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Il Signore non si stanca di perdonare e di chiamare

Cosa c’entra il perdono con la chiamata?

Il tema di queste meditazioni prende spunto da un episodio del Vangelo di Luca al capitolo 7, 36-50: Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che [Gesù] si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo.

Ci troviamo davanti ad una scena che ci ricorda l’unzione di Betania: abbiamo il profumo, i gesti della donna… ma qui c’è una differenza, in questo caso la donna che compie questi gesti è una peccatrice. Ciò che accade è quasi surreale: una donna entra nella casa di un uomo, non un uomo qualunque, ma entra nella casa di un fariseo, non è stata invitata ed è una donna. Una donna che per di più ha una brutta fama nel paese, di lei infatti non si dice il nome, non si dice niente se non che è una peccatrice. Forse rischia molto, eppure non bada all’immagine che gli altri si sono fatti di lei e che ormai ha appiccicata addosso, non bada a niente se non al suo bisogno di incontrare Gesù.

È tutta mossa da questo desiderio, entra e va dritta verso Gesù e lo tocca: consapevole della sua miseria si mette ai suoi piedi, si china e gli lava i piedi con le sue lacrime, li bacia, li asciuga con i capelli. Possiamo immaginare che questa donna fosse un’adultera o una prostituta, il suo peccato infatti è noto a tutti. I gesti che compie ai nostri occhi potrebbero apparire sconvenienti, se non addirittura scandalosi ed esagerati. Noi diremmo: un po’ troppo. Eppure non si tira indietro, va e tocca Gesù, entra in contatto con lui.

Ma allora cosa muove questa donna? Cosa le fa rischiare così tanto?  Dove nasce la sua fede?

È lei a fare il primo passo, a muoversi verso Gesù ed è Lui che perdona i suoi peccati perché ha molto amato (7,47), ma se non ci fosse stata almeno l’intuizione che quell’uomo era diverso, che non era uno pronto a giudicarla a partire dai suoi errori, se in fondo al suo cuore non avesse sentito che il suo errore non coincideva con il suo essere, forse non si sarebbe mai spinta così tanto oltre, forse non avrebbe neanche fatto un passo. È la persona di Gesù, il suo muoversi, il suo stare in mezzo alla gente così nuovo, così diverso, che permette questo incontro. Il primo miracolo che avviene è che la passione di quella donna, il suo impeto, diventa il modo con cui accostare Gesù, va da lui senza filtri, va da Gesù stando dietro, consapevole quindi della sua piccolezza, ma con tutta la passione che è sua, e con tutto il suo essere. Si butta ai suoi piedi, li bacia, li bagna di lacrime, li cosparge di profumo.  

Quante volte per paura di non sentirci degni di stare alla sua presenza ci siamo frenati e allontanati nel rapporto con il Signore. Magari ci blocchiamo nelle nostre scelte, nel rapporto con Lui perché non ci sentiamo abbastanza, non ci sentiamo abbastanza coerenti, non ci sentiamo ancora abbastanza giusti per Lui, invece no, il Signore è li che ci aspetta per cancellare quel giudizio che prima di tutto è quello che noi abbiamo di noi stessi e questo pesa tanto, pesa anche più di quello che gli altri hanno di noi. Quando accade questo, la donna peccatrice ci ricorda che possiamo sempre ritornare allo sguardo buono del Signore, che ci accoglie e ci raccoglie nella verità di noi stessi anche e soprattutto nelle nostre miserie e nelle nostre fatiche.

Per capire meglio quello che cerco di dirvi vi racconto un episodio, che in un certo senso è il contrario dell’episodio della donna peccatrice… è un tratto della vita di San Girolamo: Girolamo ad un certo punto della sua vita sente una grande distanza tra lui e Dio eppure aveva fatto ogni tipo di sforzo per il Signore. Così un giorno si getta disperato ai piedi di un crocifisso. Davanti a questo gesto Gesù rompe il silenzio dicendo: «Girolamo, cos’hai da darmi? Cosa riceverò da te? ».

Girolamo inizia a pensare a cosa dare. Inizia ad offrire una serie di cose, dalla solitudine, i digiuni, la fame, la sete. Il Signore ringrazia ma chiede se ha altro da offrire.

Allora Girolamo offre le veglie, la lunga recita dei salmi, lo studio assiduo della Bibbia, il celibato, la mancanza di comodità, la povertà etc.. Ad ogni offerta Gesù, dopo aver ringraziato ed essersi complimentato, chiede a Girolamo: «Girolamo, hai qualcosa d’altro da darmi?»  E dopo l’ennesima lista Girolamo dice un po’ scoraggiato: «Signore, ti ho già dato tutto, non mi resta davvero più niente!».

Dopo un grande silenzio Gesù replica un’ultima volta: «Si, Girolamo, hai dimenticato una cosa: dammi i tuoi peccati, affinché possa perdonarteli».

Cioè il Signore ci vuole tutti interi e non solo qualche stanzetta ben ordinata, vuole tutto di noi, vuole che gli consegniamo anche le cose di cui magari non andiamo tanto fieri o che ci spaventano di noi, non per umiliarci, ma per assumerle su di sé: ciò che non è assunto non è salvato proclamavano i Padri contro alcune eresie che volevano ridurre la natura di Gesù.

Il Signore ama e ci ama sempre e non esiste peccato e bruttura che lui non possa perdonare: non si stanca appunto di perdonare come dice il titolo di questo incontro.

Quando penso al perdono di Dio, alla sua misericordia, l’esperienza più lampante, la mia prima esperienza è quella di quando ero bambina, avevo fatto arrabbiare la mamma, sapevo di averla offesa e mi vergognavo ad andare da lei, ma allo stesso tempo non potevo sopportare quella distanza che si era creata. A partire dal bisogno che io bambina avevo di lei, dal bisogno di sapermi ancora voluta bene ho raccolto tutto il mio coraggio, perché ci vuole coraggio per chiedere scusa, e sono corsa da lei a testa bassa sussurrando: scusa. È bastato uno sguardo per capire che lei in realtà mi stava aspettando, e che incredibilmente mi aveva già perdonato. Avevo sperimentato che si può sempre ricominciare, nell’amore. Certo tutto questo non era così chiaro nella mia mente di bambina di allora però ci sono delle esperienze che facciamo da piccoli che ci rimangono dentro e piano, piano crescono e ci accompagnano e ritornano parlandoci sempre più profondamente.  

Così il Signore fa con noi, ci attende lì dove abbiamo sbagliato non per rinfacciarci quanto siamo stati mancanti, ma per riempire quella mancanza della sua presenza, per dirci: io ti ho già perdonato, io sono lì anche nelle tue brutture, anzi è a partire dalle tue brutture, dalle cose che tu non sopporti di te che io faccio cose grandi, perché la mia potenza sta nella tua debolezza (cfr 2Cor 11,9).

E paradossalmente, è lì nel nostro peccato che siamo chiamati, non altrove, non solo a partire dalle cose che sappiamo fare, che ci riescono, certo noi siamo anche bellezza, bravura, doni da far crescere, però misteriosamente non è quello il punto di partenza.

Mi piace guardare alla vocazione di Pietro e Andrea, due uomini, due bravi pescatori, esperti.

Sono lì e Gesù si presenta da loro proprio nel momento in cui non possono far mostra delle loro capacità, della loro bravura, non possono mostrare le loro abilità, il loro successo nelle cose di tutti i giorni. Sono lì davanti a Gesù a mani vuote, non hanno pescato niente e sono pieni del loro fallimento. Eppure Gesù sceglie quel momento preciso per incontrarli, per farsi conoscere, per attirarli dietro a Lui, e fa loro una promessa grandissima, che quel vuoto sarà colmato da una sovrabbondanza, da qualcosa di più grande che loro però non posso che intravvedere nella pesca miracolosa della quale diventeranno protagonisti un attimo dopo.

In quel momento loro non hanno niente se non la parola di un uomo che propone qualcosa di folle, qualcosa che va oltre le loro sicurezze e conoscenze: pescare di giorno buttando le reti dalla parte opposta rispetto alle consuetudini della pesca. Ancor prima della pesca miracolosa, il miracolo accade nella persona di Pietro che solo e soltanto su questa parola si fida e si riconosce peccatore: Padre Lepori (Cistercense) commenta il movimento del cuore di Pietro, questa sua improvvisa consapevolezza così: Un sentimento di indegnità si impadronì della sua coscienza: tutto quello che nella sua vita vi era stato di meschino, di falso, di collerico, di leggero, di avaro, di orgoglioso, di vile, ora diventava una massa dura e nauseante, da vomitare.

Si sorprese allora ad urlare davanti a tutti: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore!»

(Lc 5,8); e sapeva che niente di più vero era mai uscito dalle sue labbra.

Eppure, nel momento stesso in cui pronunciava queste parole e si confondevano col rumore dell’acqua, del vento e della barca, Simone capì che anche tali parole erano false, non erano già più vere davanti a quel volto, davanti allo sguardo di Gesù che continuava a fissarlo in silenzio. Erano vere, queste parole, dentro di lui, nel suo cuore, nella sua umanità, ma non erano più vere al cospetto di Gesù. Le sue labbra non avevano finito di dire «Allontanati da me, Signore», che il suo cuore già gridava con un senso di desolazione: «No! Resta con me, Signore prendimi con Te!». [1]

Ecco allora la novità che ci spalanca una possibilità infinita di relazione con il Signore che decide di sedere a tavola con i peccatori perché non è venuto a chiamare i giusti ma i peccatori (Mt 9, 13)infatticoloro che hanno bisogno del medico non sono i sani ma i malati. È quanto Matteo ci dice, lui che ha sperimentato tutto questo su di sé e per questo può raccontarcelo nel suo Vangelo.

In particolare nell’episodio che ha dato inizio a tutto: la sua chiamata.

Questo fatto ci svela che Gesù ci chiama prima di tutto per salvarci. È bello leggere la chiamata di Matteo che è davvero breve, un versetto solo, ma inserito dentro una cornice non casuale. Matteo racconta di sé nel capitolo 8 del suo Vangelo, capitolo dedicato a 10 miracoli, sono per lo più guarigioni. Ed è in questo contesto che narra dell’incontro che gli ha cambiato la vita, come a dire che quella chiamata, quel gesto di Gesù non è diverso, è magari un gesto che ha una forma diversa, ma lo scopo è la salvezza dell’uomo, di quell’uomo, lo scopo è guarirlo.

È una prospettiva che si ribalta, il nostro stare con Gesù ancora una volta non è dato dal merito, dalla buona condotta, ma dal fatto che siamo feriti e abbiamo bisogno di essere guariti, abbiamo bisogno di Cristo: Siamo tutti del Signore e Cristo è tutto per noi: se desideri risanare le tue ferite, egli è medico (Sant’Ambrogio, La verginità 66).

Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici (Mt 9,13).  

Questa espressione non vuol dire che la vita non conosce sacrifici. Quello che il Signore ci invita a vivere è un sacrificio d’amore, perché chi ama prima o poi soffre. Ci viene chiesto di essere disposti a compiere un sacrificio per Dio o per gli altri, ma solo per amore, cioè nella gratuità, nel dono di sé. Semplicemente perché per un amico, per chi si ama a volte siamo disposti a fare cose che ci costano fatica. Dalle più semplici come andare a mangiare giapponese anche se il pesce non ci piace, alle più grandi come perdonarsi e ricominciare. Vivere così nell’amore fa della nostra fede non una fede di facciata, di convenienza.

Ciò di cui abbiamo bisogno per incontrare il Signore è chiedere una fede che si scomoda, che mette in discussione le posizioni prese, che non si irrigidisce; una fede che ci fa alzare la testa dai nostri affari, come è accaduto a Levi, seduto al banco delle imposte, era tutto dentro i suoi affari di esattore delle tasse, quel giorno l’incontro con Gesù cambia tutto.

Questo incontro vorrei guardarlo con voi più da vicino nella rappresentazione che ne fa Caravaggio nell’opera pittorica: Vocazione di S. Matteo che si trova a Roma nella chiesa di San Luigi dei francesi. Premetto che Caravaggio mi affascina sin da piccola, l’ho incontrato proprio attraverso la riproduzione di quest’opera che la mia maestra delle elementari, non so bene perché, aveva deciso di tenere su una mensola della classe.

La vita stessa di Caravaggio, la sua vicenda molto travagliata, ci parla di un uomo un po’ fuori dagli schemi, in cerca di pace e di verità.

Uno degli elementi espressivi che usa, che è anche il più evidente, è l’utilizzo della luce e delle ombre. Lo fa in un modo così netto, come se non ci fossero vie di mezzo, sfumature, ma tutta la realtà è immersa nella tenebra e i personaggi vengono fuori, si vedono solo grazie ad una luce capace di illuminare, di tirare fuori appunto i protagonisti dalla tela, strappandoli in un certo senso dall’oscurità.

La seconda caratteristica importante è che Caravaggio se ne frega dei formalismi, a quel tempo infatti c’erano certi canoni da rispettare, dei modi di rappresentare le scene sacre, i santi, Gesù Maria etc… erano sempre ben vestiti in pose aggraziate. Lui esce da questi schemi perché vuole rappresentare le vicende dei santi, di Maria… calandoli nella realtà per cui Maria è spesso scalza, stanca, spettinata… così da rendere più prossime queste figure alla gente semplice, molto spesso contadina che si imbatteva ed era destinataria di questi dipinti.

In quest’opera in particolare, vediamo Matteo seduto al banco delle imposte, circondato da alcune persone, tutti sono vestiti degli abiti del periodo contemporaneo a Caravaggio.

Condotti da un gioco di sguardi ci imbattiamo in Matteo nel gesto del puntare il dito verso di sé: è incredulo, non sembra convinto che il Signore stia guardando proprio lui, si sente l’ultimo degno di essere guardato, un esattore delle tasse non penso fosse ben visto né ieri né oggi, eppure è guardato nella verità di sé, nel suo essere prima di tutto un uomo. Nel Vangelo leggiamo infatti Gesù vide un uomo (Mt 9, 9). Anche la luce sembra condurci, è una luce netta che arriva da destra, dalla stessa direzione da cui arriva Gesù. Anche Gesù non è da solo, ha con sé Pietro e diversamente dagli altri è vestito degli abiti del suo tempo. La salvezza irrompe nella storia di ogni tempo, di ogni epoca e chiama, e ci chiama. La vocazione è prima di tutto quella che abbiamo ricevuto il giorno del nostro battesimo come Cristiani cioè chiamati ad assumere la forma di Cristo, la sua postura davanti al Padre. La mano di Cristo è molto simile, richiama immediatamente la mano creatrice di Dio affrescata da Michelangelo nella cappella Sistina, dove Dio sta creando Adamo. Cristo ci chiama e ogni volta veniamo creati e ricreati: allora possiamo vedere come Gesù. Forse è questo sguardo nuovo che raggiunge Matteo, lo sguardo di uno che lo guarda profondamente, togliendo ad uno ad uno tutti gli strati superficiali, arrivando così a conoscere e vedere semplicemente l’uomo.

È bellissimo pensare che Dio chiamandoci, cioè offrendoci un cammino dietro a lui, ci propone un cammino di umanizzazione. E in questo cammino, in questa sequela, noi siamo continuamente ricreati dalla mano di Dio, dalla sua Grazia, dalla sua carità e misericordia. La mano di Dio è una mano sempre aperta che non trattiene nulla, ma tutto vuole donare.

Successivamente ai versetti della chiamata di Matteo, a questo unico versetto, segue un banchetto, dove nel giro di poco Gesù e i suoi discepoli si ritrovano circondati di pubblicani e peccatori, condividono la mensa. Ecco la festa… Dove tutti sono invitati. C’è posto per tutti, e anche noi possiamo immaginare di sederci a mensa con Gesù perché peccatori.

Possiamo condividere il pane spezzato che il Signore ci dona per nutrire il nostro cammino, per accogliere la sua presenza, per lasciarci ancora una volta guardare e riplasmare secondo l’immagine che Dio vede e che già contempla di noi.

Ogni volta che siamo guardati da lui abbiamo la possibilità di scorgere, nel riflesso dei suoi occhi, la nostra vera identità: quell’immagine bellissima che da sempre lui conosce e ama, che siamo ciascuno di noi, in questo istante, ora e per sempre.


[1] Mauro Giuseppe Lepori, Simone chiamato Pietro, Marietti i rombi, Genova-Milano, 2004 pp. 28-29