Con la riflessione di oggi pomeriggio non voglio aggiungere troppe cose a quanto avete già ascoltato questa mattina, ma soltanto vorrei focalizzare il tema della vocazione sul versante della risposta. Sono consapevole che da questo punto di vista si può dire tutto e il contrario di tutto, perché le risposte alla chiamata di Dio sono tante e diverse per quanti sono gli uomini e le donne sulla terra e so anche che le parole sono insufficienti a dare testimonianza di un’esperienza tanto personale che, per raccontarla, occorrerebbe osservare attentamente il volto, la fisionomia, il modo di camminare, di sedere, di stare di una persona che si sente chiamata. Occorre sintonizzarsi sul misterioso registro comunicativo che proviene da tutta intera un’esistenza.
Per facilitare il mio discorso e il vostro ascolto ci rivolgiamo a un personaggio biblico che raccontando la vicenda della sua chiamata e della sua risposta ha permesso ai credenti di tutti i tempi di afferrare qualche elemento utile per la propria vita.
Geremia, figlio di Chelchia…fino alla deportazione di Gerusalemme.
Il personaggio in questione è il profeta Geremia e un brandello della sua complessa e travagliata vicenda ce lo racconta lui stesso nei primi versetti del libro biblico che porta il suo nome. Lo leggiamo:
Parole di Geremia, figlio di Chelkia, uno dei sacerdoti che risiedevano ad Anatot, nel territorio di Beniamino. A lui fu rivolta la parola del Signore al tempo di Giosia, figlio di Amon, re di Giuda, l’anno tredicesimo del suo regno, e successivamente anche al tempo di Ioiakim, figlio di Giosia, re di Giuda, fino alla fine dell’anno undicesimo di Sedecia, figlio di Giosia, re di Giuda, cioè fino alla deportazione di Gerusalemme, avvenuta nel quinto mese di quell’anno.
«Mi fu rivolta questa parola del Signore:
Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.»
Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco io non so parlare, perché sono giovane».
Ma il signore mi disse: «Non dire: “sono giovane”.
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò.
Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti». (Ger 1, 1-8)
Quando si legge questo testo si corre il rischio di sorvolare quasi con un senso di fastidio i primi versetti, quasi fossero un preambolo un po’ pedante che tenta di frenare il desiderio del lettore di immergersi nel vivo della narrazione che lo attende subito dopo.
Se si accondiscende a questa reazione istintiva si corre un rischio ancora più grosso, quello di rimanere atterriti e immobili ai piedi di quella parete ripida e rocciosa che si staglia davanti a noi a partire dal versetto 5 e che pretende ti rapirci in un istante verso un’altezza troppo vertiginosa.
Meglio dunque sostare un poco a valle, per acclimatarsi un po’ e poi attaccare la salita con maggiore agio.
La valle in cui vorrei sostare con voi sono quei quattro versetti iniziali, pieni di nomi per noi poco o per nulla conosciuti, ma che per il lettore immediato del libro di Geremia avevano la forza di evocare uno scenario noto e significativo.
Parole di Geremia, figlio di Chelchia, uno dei sacerdoti che risiedevano ad Anatot, nel territorio di Beniamino.
Da queste poche parole riceviamo alcune importanti informazioni che costituiscono una specie di carta di identità del profeta Geremia. Veniamo a sapere che Geremia appartiene alla classe sacerdotale e questa appartenenza ha la forma di una condizione che si tramanda da padre a figlio: non è frutto di scelta da parte di chi la riceve e, per certi versi, possiamo dire che non appare neppure come una chiamata da parte di Dio. Geremia semplicemente nasce dentro questa successione, dentro questa discendenza che sembra tracciare il suo destino.
Oltre tutto del padre di Geremia, Chelchia, si dice che risiedeva ad Anatot, nel territorio di Beniamino. Per capire questo particolare occorre risalire ad un episodio della storia della monarchia israelita che ha per protagonista il grande re Salomone. Il re verso la fine della sua vita, temendo una congiura di corte che lo avrebbe privato del suo potere, procede ad eliminare i suoi concorrenti tra cui figurano il fratello maggiore Adonia e i suoi sostenitori in particolare il sacerdote Ebiatar che venne spedito in esilio appunto ad Anatot.
Da quel momento tutta la discendenza del sacerdote Ebiatar sarà costretta a vivere lontano dal tempio, in una condizione di marginalità e di decadenza. Chelchia e il figlio Geremia appartengono proprio a questa famiglia sacerdotale decaduta.
Per chi volesse poi approfondire il messaggio della profezia di Geremia sarà interessante notare come questa marginalità del profeta in ordine al legame con il tempio gli conferirà una certa libertà di parola, soprattutto di denuncia contro una ritualità divenuta vuota ed esteriore.
A noi però interessa ora registrare il dato biografico a cui vorrei accostare un’altra informazione che deduciamo dai versetti seguenti:
A lui fu rivolta la parola del Signore al tempo di Giosia, figlio di Amon re di Giuda…e successivamente anche al tempo di Ioiakim, figlio di Giosia…fino alla fine dell’anno undecimo di Sedecia, figlio di Giosia re di Giuda, cioè fino alla deportazione di Gerusalemme…
Non è certamente facile riuscire a cogliere tutta la portata dello snodo storico e politico che sta dietro a queste parole, ma possiamo anche solo intuitivamente comprendere che il ministero profetico di Geremia si dipana in un tempo abbastanza lungo, un tempo travagliato e agitato da un avvicendamento sin troppo rapido di guide del popolo che ci fa pensare ad una instabilità politica che sicuramente aveva delle ripercussioni anche sulla fede degli israeliti che guardavano al re come al garante della guida sicura di Dio presso il suo popolo.
Infine l’ultima annotazione descrive il tragico epilogo della deportazione di Gerusalemme sotto la pressione delle grandi potenze di allora l’Egitto e Babilonia. Con la deportazione un popolo perdeva ogni libertà, ogni autonomia, il diritto stesso di esistere.
Da questa sosta nella valle traiamo un’ultima precisazione. Chi ha redatto definitivamente il libro di Geremia, raccogliendo le sue parole, le sue azioni e le sue dolorose vicende ha voluto in questi pochi versetti farne un riassunto che non nascondesse una scomoda verità: la vicenda di Geremia, la sua chiamata e la sua straordinaria missione furono segnate da un grande fallimento. Il riferimento alla deportazione di Gerusalemme dice che la fatica di Geremia, inviato proprio per scongiurare questa tragedia, è stata apparentemente vana.
Mi fu rivolta questa parola del Signore.
Ora dobbiamo attaccare la montagna, come dicevamo all’inizio, ma capite che la cima si presenta ai nostri occhi come quelle vette che spuntano da una coltre di nubi o di nebbia come accade spesso nella stagione invernale a chi sale al Sacro Monte e ha fatto magari tutta la strada avvolto in una nebbiosa oscurità che si dirada proprio all’apparire della cima.
Abbiamo visto la condizione non entusiasmante di Geremia, abbiamo intravisto il dramma del suo popolo ora tutta la scena è dominata dal suono di una voce:
Mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Il Signore entra in scena con una delle più commoventi dichiarazioni d’amore e di vicinanza di tutta la scrittura.
L’orizzonte ristretto e marginale della vita di Geremia, la condizione di estrema minaccia del popolo a cui appartiene, sono inondate dalla luce di una parola che dice presenza, attenzione, come se l’orecchio di Dio, sempre proteso verso il grido del suo popolo, abbia indirizzato lo sguardo di Dio verso un uomo che Dio stesso conosceva e amava sin dall’eternità.
In queste poche e splendide parole l’autore biblico ci fa entrare in uno dei misteri più grandi che riguardano l’esistenza umana, quello che racconta di un amore originario, libero e appassionato che precede e che è il movente della creazione e poi della missione di ciascuno di noi.
Mi soffermo brevemente su due verbi che troviamo in questi versetti: conoscere, consacrare.
Nella scrittura la conoscenza ha uno stretto legame con l’amore, conoscere significa entrare in intimità con una realtà e più ancora con qualcuno. Quando poi è Dio a conoscere e in particolare a conoscere qualcuno non vuol dire semplicemente che sa chi egli sia, che lo abbia presente, che possa definirlo con esattezza, questo sarebbe ancora troppo poco.
La conoscenza che Dio ha di ciascuno di noi è un atto originario che ci fa essere ciò che siamo nella nostra verità più profonda, quella che poi impiegheremo tutta la vita per scoprire, ma che Dio ha costantemente presente.
Consacrare letteralmente significa separare, mettere da parte, riservare per un servizio che ha a che fare con la sfera del sacro. Possiamo però scendere più in profondità, consacrare vuol dire abilitare qualcuno a partecipare della santità di Dio, a vivere una relazione di comunione con lui che gli faccia vivere della sua stessa vita.
Così compresi questi due verbi ci dischiudono il significato e il senso del terzo verbo usato da Dio e cioè stabilire.
Questo è il verbo che più specificamente vuole indicare la missione che Dio affida a Geremia, non lo possiamo comprender senza l’espressione che segue: profeta delle nazioni.
È un verbo enigmatico, non facile da decifrare. Stabilire significa porre, collocare, il suo utilizzo da parte di Dio insinua il pensiero che Geremia da sempre conosciuto e amato, creato e abilitato alla comunione con il suo Creatore, sia stato collocato, da un misterioso disegno provvidenziale, in un punto preciso della storia e che la sua identità più profonda sia stata pensata proprio per rispondere alla richiesta di salvezza di Israele e di tutti i popoli.
Tocchiamo qui, come dicevamo prima, il vertice di un grande mistero che riguarda Geremia, ma anche ciascuno di noi ed è l’intreccio meraviglioso che lega la nostra identità, la nostra chiamata da parte di Dio e le necessità salvifiche dell’umanità in un dato momento della storia.
Per chiarire il pensiero vi offro una riflessione che mons. Pierantonio Tremolada formula in uno studio dedicato proprio a questo brano di Geremia che stiamo leggendo insieme: Ogni vocazione personale è in rapporto con il mondo. L’agire di Dio nella storia di un soggetto non è immaginabile se non in relazione con l’agire di Dio a favore del mondo intero[…]
Quale reale rapporto si instauri tra la vicenda universale e il cammino personale degli individui solo Dio lo sa. Solo lui è in grado di guardare alla storia nella sua autentica verità, riconoscendo e infondendo ad essa il senso di cui ha bisogno, mantenendo in tensione e rispettando le innumerevoli libertà personali in gioco e orientandole costantemente, nel travaglio drammatico di ogni momento storico, verso l’esito costantemente positivo dell’esperienza della salvezza (P. Tremolada, La vocazione di Geremia. Un’opera di Dio tra storia ed eternità. Sc Catt 132 (2004)).
Risposi.
C’è da restare giustamente sgomenti davanti alla rivelazione di un Dio così, che ci obbliga a pensare la nostra vita in un orizzonte tanto vasto e in termini di eternità!
Credo che anche Geremia abbia patito un certo sentimento di confusione che lo porta a formulare una risposta che ha tutto il sapore dell’obiezione:
«Ahimè, Signore Dio!
Ecco io non so parlare, perché sono giovane».
Gli studiosi qui direbbero che si tratta di una formula tipica di quasi tutti i racconti di vocazione: Dio chiama, il chiamato risponde con una obiezione che parte dal riconoscimento della propria inadeguatezza per lasciare poi a Dio di ribattere offrendo una assicurazione.
Bene, però non possiamo liquidare la faccenda pensando semplicemente ad un artificio retorico, vale la pena cercare di capire.
Istintivamente tutti pensiamo che Geremia si stia difendendo dall’assunzione di un compito che ha a che fare con il parlare in pubblico e per questo accampa la scusa della sua giovane età, come se dicesse: non posso parlare, perché sono ancora troppo giovane per farlo.
Se confrontiamo però alcuni dati cronologici scopriamo che Geremia al momento della sua chiamata non è poi così giovane, almeno per i suoi tempi, aveva infatti probabilmente circa vent’anni.
Allora forse Geremia sta dicendo al Signore un’altra cosa, sta dicendo: sono giovane, cioè non sono più un bambino. In quanto giovane Geremia ha maturato una certa esperienza di sé, è stato iniziato dall’ambiente famigliare ad una conoscenza profonda della fede di Israele, dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, ricordava l’esperienza di chi era stato chiamato alla missione profetica prima di lui, come Osea e Amos ed era entrato in contatto con i racconti sul grande profeta Isaia, era a conoscenza della difficile situazione internazionale, della minaccia che gravava sul suo popolo. Insomma aveva chiara la percezione di cosa volesse dire essere profeta delle nazioni, come se dicesse: Ahimè, Signore, so cosa mi stai chiedendo!
Non dire: “sono giovane”, tu andrai…perché io sono con te.
A partire da questa possibile interpretazione, possiamo comprendere meglio anche la risposta di Dio:
Il Signore mi disse:
«Non dire: “sono giovane”.
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
E dirai tutto quello che ti ordinerò.
Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti».
Il Signore ruba la parola a Geremia, resiste alla sua obiezione, “colpendolo” in un punto preciso, cioè proprio su quella conoscenza di sé e della storia a cui appartiene che il giovane uomo ha dichiarato di avere e che motiva la sua reticenza. Il Signore gli impone il silenzio su questo: non dire, cioè: taci, sospendi il corso dei pensieri che già hanno capito dove si andrà a finire, concedi a te stesso di non sapere tutto. La conoscenza che hai di te e della storia, per quanto lucida e onesta, non ha fatto ancora i conti con ciò che io conosco di te dall’eternità e con l’esito che io intendo dare alla storia!
Mi sono divertita a immaginare i pensieri del Signore, è stato un gioco, ma il testo e anche un po’ l’esperienza che io stessa ho fatto del Signore, mi sembra che autorizzi ad andare in questa direzione.
Geremia è chiamato ad aprirsi a una nuova comprensione di se stesso e del tratto di storia in cui è collocato, ma questa nuova conoscenza emergerà a partire dalla disponibilità ad andare da tutti coloro a cui ti manderò e dal pronunciare le parole che ti ordinerò, cioè proprio dalla sua missione di profeta delle nazioni.
Non sarà possibile per Geremia decidersi per questo cammino senza un’ulteriore rassicurazione: io sarò con te per proteggerti.
In questo momento della sua storia Geremia può solo fidarsi di questa promessa, di cui farà poi esperienza lungo tutta la sua travagliata esistenza. Vi dicevo all’inizio che di fatto la predicazione di Geremia avrà un esito fallimentare e il profeta stesso sarà oggetto di scherno da parte dei suoi connazionali, subirà emarginazione e prigionia e sarà costretto a vedere la deportazione del suo popolo. Tuttavia mai il profeta verrà meno alla sua missione e sarà proprio questa misteriosa perseveranza il segno più chiaro della costante presenza del Signore accanto a lui per proteggerlo dall’essere sopraffatto dagli eventi e per assicurare, per mezzo suo, il permanere di una parola di speranza e di salvezza che travalicando i secoli è giunta sino a noi.
Concludendo
In realtà il Signore darà a Geremia altri segni della sua amorevole vicinanza e potete leggerli da voi nei versetti che seguono immediatamente dopo sino alla fine dell’intero capitolo.
Noi ci fermiamo qui, attraverso questa lettura siamo stati condotti dal racconto di Geremia a percepire chela nostra vita è avvolta in un grande e luminoso mistero che raccoglie la sua origine e il suo fine in un amore personalissimo ed eterno, ma anche che essa è indissolubilmente legata alla sorte di tutta l’umanità che vive in quel tratto di storia a cui apparteniamo. Percepire la propria vita come una costante chiamata che chiede risposta vuol dire allora fare esperienza di quell’intreccio di eternità e di tempo, di visibile e di invisibile che fa lo spessore reale della nostra vita. Abbandonarsi a questa ampiezza senza timore è ciò che il Signore ci chiede e a nostra custodia pone la sua presenza unita ad una promessa: io vigilo sulla mia parola per realizzarla (Ger 1,11).
Vi lascio con un pensiero che vuole essere anche un augurio per la vostra ricerca, lo prendo in prestito da un grande poeta: R. M. Rilke e sono certa che anche Geremia sottoscriverebbe queste parole.
Non devi attendere che Dio venga a te
e dica: eccomi.
Un dio che professi la sua forza
non ha senso.
Devi sapere che Dio soffia in te come il vento
sin dagli inizi,
e se il cuore ti brucia e non si svela,
c’è lui dentro, operante.