Il sacro triduo pasquale ha inizio questa sera con la messa in coena Domini. La liturgia ambrosiana, a partire da questa celebrazione vespertina, ci fa percorrere, passo, passo, quasi in tempo reale tutti gli avvenimenti della passione del Signore, così come sono narrati dall’evangelista Matteo.
La parola di Dio ascoltata lungo tutto il cammino quaresimale ci ha condotti a questo momento. Forse non sappiamo dire come, ma ogni anno accade che le letture proposte dalla liturgia eucaristica per i giorni feriali, per i sabati e le domeniche, come una marea ci sospingano lentamente, ma inesorabilmente a questo approdo.
Lungo il cammino quaresimale, nella quotidianità dei giorni feriali, ci siamo immersi nella lettura del discorso della montagna del vangelo di Matteo scortati dai libri di Genesi e Proverbi; è un ordinamento di letture tradizionale per la nostra chiesa milanese, attestato sin dai tempi di sant’Ambrogio. Esso ci offre un’ impegnativa catechesi dalla quale siamo invitati a collocare la nostra vita nel grande progetto creazionale di Dio, a confrontarci con la vita e la fede dei patriarchi, ad accogliere come figli l’istruzione di un padre che pone il timore del Signore come principio della sapienza (cfr. Pr 1,7) e infine ad ascoltare dalle labbra stesse del Signore Gesù la carta d’identità del cristiano: le Beatitudini, nelle quali si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita, come dice Papa Francesco in Gaudete et exultate, 63.
Accanto a queste grandi letture trova spazio, però, anche una presenza discreta di cui quasi non ci si accorge, ma che, giorno dopo giorno, diventa famigliare, attesa e necessaria. Si tratta del salmo 119, 118 nella numerazione latina usata dalla liturgia.
È un lunghissimo salmo diviso in 22 ottonari (8 versetti di due stichi ciascuno), tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Ogni lettera dell’alfabeto dà inizio a tutte le prime parole degli otto distici di cui si compongono i singoli ottonari, per questo è chiamato salmo alfabetico.
Al di là della sua complessa struttura si tratta di un salmo molto caro sia alla tradizione monastica- nella nostra comunità, ad esempio, esso viene cantato interamente per due volte ogni settimana, dal momento che occupa la salmodia di tutte le ore minori- che al vescovo stesso Ambrogio che gli dedicò un bellissimo commento e nel quale lo definì: un sole nel pieno della sua luminosità (Ex. ps. CXVIII, prol. 1).
Posto in funzione responsoriale tra la prima e la seconda lettura, il salmo offre all’assemblea convocata le parole per esprimere la propria lode. È ancora sant’Ambrogio a dirci: Il titolo di questo salmo è Alleluia, cioè lode di Dio. Infatti c’è proprio la lode di Dio in questi cantici, in cui si parla della remissione dei peccati (Ex. ps. CXVIII, prol. 3). Chi conosce un po’ questo salmo e lo identifica come il salmo della legge- la legge, con tutto il suo complesso orizzonte lessicale, è infatti la grande protagonista del salmo- può restare sorpreso dal suo novero tra i salmi di lode e tuttavia c’è in questo accostamento una profonda sapienza.
Innanzitutto la legge di cui si parla altro non è che la stessa parola di Dio e il tema centrale del salmo risulta essere l’intreccio tra la libertà di Dio che dona la sua parola e la libera adesione dell’uomo che vi si attacca per vivere: la tua parola mi fa vivere (v.50).
La lode sgorga da questa esperienza di intimità con la parola di Dio, meditata giorno e notte, come dice il salmo 1, cioè nelle ore prospere e nelle vicende avverse, nella consolazione e nella desolazione, nella fecondità e nell’aridità, nel vigore e nella malattia, nel meriggio assolato della fede e nell’ora dura del dubbio e della paura, nel canto della giovinezza e nel gemito della vecchiaia.
La Parola attraversa tutta la nostra esistenza, ad ogni passo si lascia incontrare con instancabile fedeltà, essa è custode di una promessa che certo si compirà, ma accetta di essere messa alle strette dal credente che domanda con insistenza: non deludermi nella mia speranza (v. 116). E il credente dal canto suo, lascia che la Parola corroda a poco, a poco le sue false sicurezze, le sue illusorie ambizioni, le facciate dietro cui si nasconde e gli doni l’esperienza dell’umiltà che è percezione della propria creaturalità, della propria appartenenza al destino comune di ogni essere vivente, creato in uno slancio d’amore, liberato dal peccato, perché possa tornare come figlio al Padre: bene per me se sono stato umiliato, perché impari ad obbedirti (v.71).
Lungo tutto il cammino quaresimale il Salmo 118 ci ha ricordato il legame vitale che la nostra vita e la nostra fede intrattiene con la parola di Dio e lo ha fatto con la sua presenza discreta e la sua dolcezza persuasiva. È interessante a questo proposito ricordare che nelle antiche basiliche gli amboni- luogo della proclamazione della parola durante la liturgia- spesso erano dotati non di una sola loggia, ma di più logge da cui venivano lette le diverse letture. La loggia da cui si cantava il salmo poteva essere decorata con palme e datteri ad indicare che quello che il salmo offre all’assemblea è un refrigerio nel tempo del deserto e un nutrimento sostanzioso e dolce, capace di sostenere, ma anche di rallegrare.[1]
È allora esperienza che suscita commozione ritrovare il salmo 118 in un momento del triduo pasquale che, pur non inserendosi in senso proprio nella grande liturgia di questi giorni, rappresenta un appuntamento caro alla nostra devozione, ci riferiamo al gesto della lavanda dei piedi. Il rito ambrosiano non inserisce la lavanda dei piedi nella liturgia della messa in coena Domini; non potrebbe trovarvi spazio dal momento che l’ordinamento delle letture prevede la lettura continua della passione secondo Matteo, mentre l’episodio è narrato solo dall’evangelista Giovanni come memoria dell’istituzione dell’Eucarestia. Tuttavia è possibile compiere il gesto in qualsiasi momento della giornata del Giovedì santo, anche prima o dopo la Messa.
Secondo la rubrica riportata dal Messale e se non si opta per qualche altro canto adatto, il rito è accompagnato dal canto dei primi due ottonari del salmo 118 con un’antifona il cui suggestivo testo è tratto dal vangelo di Giovanni 13, 4-5. 14: Il Signore si alzò da tavola, versò l’acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli. «Se io, Signore e maestro, ho lavato i vostri piedi, tanto più voi li dovete lavare gli uni agli altri».
Anche quest’anno le norme di contenimento della pandemia ci impediranno di vivere questo momento e anche la nostra comunità, pur vivendo questo rito in forma famigliare- nella nostra consuetudine, è la Madre che lava, asciuga e bacia i piedi di dodici sorelle-, ha deciso di adeguarsi alle indicazioni e di rinunciare al gesto. Tuttavia il ricorrere frequente del salmo 118 anche nei giorni della Settimana Santa, ci riporta idealmente al rito e, attraverso la memoria rituale, al cenacolo dove i discepoli sgomenti e increduli si videro lavare i piedi dalla Parola fatta carne, in quella sera, fattasi servo.
Quell’intimità con la Parola lungamente e amorosamente cantata dal salmo giunge, nel cenacolo, al suo culmine. La Parola di cui si poteva dire: lampada per i miei passi e gioia del mio cuore, ha ora un volto preciso, il volto di un Dio chinato, intento a lavare e a prendersi cura di quella carne umana che lui stesso aveva assunto, come la sua propria carne.
I due ottonari previsti per la lavanda dei piedi sono i primi due, entrambi iniziano con un richiamo all’integrità del cammino e dell’agire dell’uomo: Beato l’uomo di integra condotta, che cammina nella legge del Signore (v.1), Come potrà un giovane tenere pura la sua via? Custodendo le tue parole (v. 9). Dobbiamo ricordare che nella tradizione ambrosiana la lavanda dei piedi era uno dei riti dell’iniziazione cristiana che i catecumeni vivevano durante la veglia pasquale, dunque concorreva insieme agli altri riti, a far rinascere a vita nuova chi vi si accostava.
In questa prospettiva possiamo ascoltare ancora le parole del vescovo Ambrogio. Nel suo commento alla seconda strofa del salmo 118, egli fa dire alla carne dell’uomo immersa nelle tribolazioni della vita: Bruna sono, e bella! Bruna per la polvere della terra che mi si è appiccicata durante il combattimento; bella per l’olio spirituale con cui mi sono detersa la polvere e la sporcizia di questa terra, bruna per il vizio, ma bella ora per il lavacro che ha portato via ogni colpa. Sono bruna perché ha peccato, bella perché ora mi ama Cristo (Exp. ps. CXVIII, II, 8).
Questa sera la liturgia ci fa nuovamente vivere la notte che il Signore ha attraversato per noi, somma e compimento di tutte le notti che l’umanità deve attraversare, accompagnati dalla Parola di Dio inoltriamoci anche noi senza timore e, come ci invita a fare il salmo 118 al v. 55, nella notte ricordiamo l’unico nome nel quale possiamo trovare salvezza: il nome del Signore nostro Gesù Cristo.
[1] Cfr. AA.VV., L’ambone. Tavola della Parola di Dio. Edizioni Qiqajon. Pp.94-95